4 mosche di velluto grigio di Dario Argento (1971)


Italia, Francia 1971
Titolo Originale: 4 mosche di velluto grigio
Regia: Dario Argento
Sceneggiatura: Dario Argento
Cast: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Jean-Pierre Marielle, Bud Spencer, Stefano Satta Flores, Marisa Fabbri, Francine Racette, Costanza Spada, Calisto Calisti, Oreste Lionello, Fabrizio Moroni, Aldo Bufi Landi, Tom Felleghy, Guerrino Crivello, Corrado Olmi, Gildo Di Marco, Leopoldo Migliori, Fulvio Mingozzi, Dante Cleri, Pino Patti, Ada Pometti, Jacques Stany, Renzo Marignano
Durata: 102 minuti
Genere: Thriller


Dopo una settimana di pausa - la rubrica in questione non ha scadenza e potrebbe anche andare di pari passo con l'inizio di nuove rubriche, in questo periodo mi pare di avere un sacco di idee, vedremo se riuscirò a portarle avanti tutte! - si ritorna a parlare di Dario Argento, nello speciale a lui dedicato, con la recensione del suo terzo film, anche terzo capitolo della Trilogia degli animali, trilogia antologica composta da "L'uccello dalle piume di cristallo", esordio alla regia per Argento e di gran lunga il migliore dei tre, "Il gatto a nove code", film abbastanza deludente e pasticciato, e appunto "4 mosche di velluto grigio" che arrivò nei cinema italiani nel 1971, pochi mesi dopo l'uscita del capitolo precedente e girato in poco meno di due mesi. A chiusura della Trilogia degli animali, che negli intenti del regista sarebbe dovuta proseguire con "La tigre dai denti a sciabola" cui poi fu cambiato il titolo diventando lo sconosciutissimo "Profondo rosso", si venne a creare, grazie anche al grande successo ottenuto, un vero e proprio filone di film, tutti girati tra il 1971 e il 1977, con il nome di un animale nel titolo, tra cui si segnalano "Non si sevizia un paperino" di Lucio Fulci e "Il gatto dagli occhi di giada" di Antonio Bido.
In "4 mosche di velluto grigio" il protagonista della vicenda è Roberto Tobias, interpretato da Michael Brandon, il batterista di un complesso rock che da qualche tempo pare essere pedinato da un losco figuro. Deciso ad affrontarlo una volta per tutte, una sera, dopo le prove con la sua band, lo segue fino all'interno di un teatro e accidentalmente lo uccide utilizzando lo stesso pugnale impugnato dal suo pedinatore. L'omicidio viene fotografato da una persona mascherata che si trovava sul loggione del teatre, che successivamente inizia a perseguitarlo e a minacciarlo. Dopo alcune minacce e un'aggressione scampata, Roberto decide di confidare la cosa all'amico Diomede, chiamato Dio e interpretato da Bud Spencer, che gli consiglia di rivolgersi a Gianni Arrosio, un investigatore privato interpretato da Jean-Pierre Marielle, per fare luce sulla questione.
In questo terzo lavoro di Dario Argento sono presenti diversi elementi che poi, riutilizzati nel corso di suoi film successivi, soprattutto negli anni '80, faranno la vera e propria fortuna del regista. Il primo è il fatto di essere il suo primo lavoro in cui la colonna sonora presenta brani con influenze progressive rock, con la sola scena iniziale che musicalmente vale da sola la colonna sonora dell'intero film, composta comunque per intero da Ennio Morricone, alla sua terza collaborazione con il regista. Il secondo sta invece nel porre l'attenzione dello spettatore e dunque la risoluzione dell'intero caso su un singolo dettaglio che, una volta riconosciuto come quello fondamentale per scoprire l'assassino, rende le visioni successive totalmente diverse dalla prima - tengo però a sottolineare che questo è uno di quei film del regista che ho recuperato apposta, assieme al prossimo che sarà quello più diverso della sua intera carriera, per scrivere questa rubrica -, utilizzando tra l'altro uno di quegli stratagemmi che poi verranno riutilizzati con scarsi risultati in altri esemplari del cinema horror anche contemporaneo, ovvero l'idea che la retina di un morto contenga l'immagine dell'ultima cosa da lui vista.
Spostando a volte l'attenzione su una dimensione onirica decisamente inquietante, Dario Argento riesce a portare in scena un film decisamente migliore rispetto al precedente anche se ancora a livello di sceneggiatura c'è qualcosa che non quadra - ma se è per quello ci sono cose che non quadrano nemmeno in "Profondo rosso", che però è così bello che chissene frega - e a livello di coinvolgimento e di tensione non siamo nè ai livelli del suo primo lavoro nè a quelli di quei film che faranno la sua fortuna a livello cinematografico negli anni successivi della sua carriera. Rimane però un buon film che mostra ancora una volta la maestria di Dario Argento dietro alla macchina da presa e il suo volere di sperimentare soprattutto a livello narrativo. Saranno poi le sue stesse paure ed ossessioni ad entrare prepotentemente nel suo modo di fare cinema, che qui vediamo ancora in uno stato embrionale attraverso l'utilizzo di una componente onirica sicuramente interessante.

Voto: 7

Commenti

  1. Ottima analisi, la trama qui è spesso al limite del “Maccosa”, anche quell’espediente finale lì, che come giustamente sottolinei è stato poi spesso riciclato. Però davvero sperimentazione è la parola chiame, i miei Dario Argento preferiti sono quelli che giocano in un campo quasi onirico (o meglio, da incubo) che il regista sapeva gestire molto bene ;-) Cheers!

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  2. Io di questo film ricordo tantissimo Bud Spencer, il resto si è un po' perso nel tempo, lo ammetto :)

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  3. Lo trovai bello e inquietante. Gli horror di una volta non esistono più, ed è vero, purtroppo.
    Dalle mie parti, comunque, c'è un giochino che ti aspetta.

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